Benvenuti

"Dobbiamo inventare una nuova saggezza per una nuova era. E nel frattempo, se vogliamo fare qualcosa di buono, dobbiamo apparire eterodossi, problematici, pericolosi e disubbidienti a coloro che ci hanno preceduto".
JOHN MAYNARD KEYNES Essays in persuasion

"Non aver paura che la vita possa finire. Abbi invece paura che non possa cominciare mai davvero".
JOHN HENRY NEWMAN

lunedì 31 dicembre 2012

Buon anno!

Filastrocca di capodanno:
fammi gli auguri per tutto l’anno:
voglio un gennaio col sole d’aprile,
un luglio fresco, un marzo gentile;
voglio un giorno senza sera,
voglio un mare senza bufera;
voglio un pane sempre fresco,
sul cipresso il fiore del pesco;
che siano amici il gatto e il cane,
che diano latte le fontane.
Se voglio troppo, non darmi niente,
dammi una faccia allegra solamente.

Gianni Rodari

domenica 30 dicembre 2012

A proposito di libri...

"I libri hanno gli stessi nemici che l'uomo: il fuoco, l'umido, le bestie, il tempo e il loro stesso contenuto".
Le pagine che state leggendo parlano soprattutto di libri, una realtà fragile ed esplosiva al tempo stesso. Questi segni grafici, in verità sono creature viventi perchè parlano di vita e di morte, di bene e di male, di splendori e miserie, di vita e di morte.
E' per questo che ha senso il parallelo stabilito da Paul Valéry nel suo saggio sulla Letteratura tra il libro e l'uomo. Il fuoco incenerisce il libro e la nostra carne; l'umido sgretola le pagine e le nostre ossa; le belve calpestano i fogli e artigliano i nostri corpi; il tempo dissolve le carte e consuma la nostra vita.
Ma alla fine c'è un quinto nemico più insidioso ed è quello interno a entrambi i soggetti: il contenuto.
Non è certo per esaltare un  "Indice" o una censura che condividiamo le parole del poeta francese. E' solo perchè è scontato che esistono persone e libri vacui e fatui, perversi e maligni, figli del silenzio e figli della chiacchiera. E allora possiamo rifugiarci dietro l'autorità di Bacone che, nei sui Saggi, non esitava a proporre questo consiglio: "Alcuni libri vanno assaggiati, altri inghiottiti, pochi masticati e digeriti".

Gianfranco Ravasi, articolo sul "Il sole 24 ore" del 3 luglio 2011

martedì 25 dicembre 2012

Auguri di buon Natale!

La Nativita' di Lorenzo Lotto (Venezia 1480ca. - Loreto 1556-7) - Civica Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia

Non credo proprio per nulla ai nostri Natali: anzi penso che sia una profanazione di ciò che veramente il Natale significa.
Costellazioni di luminarie impazzano per città e paesi fino ad impedire la vista del cielo. Sono città senza cielo le nostre. Da molto tempo ormai!


E’ un mondo senza infanzia. Siamo tutti vecchi e storditi. Da noi non nasce più nessuno: non ci sono più bambini fra noi. Siamo tutti stanchi: tutta l’Europa è stanca: un mondo intero di bianchi, vecchi e stanchi.
Il solo bambino delle nostre case saresti tu, Gesù , ma sei un bambino di gesso!
Nulla più triste dei nostri presepi: in questo mondo dove nessuno più attende nessuno.


L’occidente non attende più nessuno, e tanto meno te: intendo il Gesù vero, quello che realmente non troverebbe un alloggio ad accoglierlo. Perché, per te, vero Uomo Dio, cioè per il Cristo vero, quello dei “beati voi poveri e guai a voi ricchi”; quello che dice “beati coloro che hanno fame e sete di giustizia ..”, per te, Gesù vero, non c’è posto nelle nostre case, nei nostri palazzi, neppure in certe chiese, anche se le tue insegne pendono da tutte le pareti...
Di te abbiamo fatto un Cristo innocuo: che non faccia male e non disturbi; un Cristo riscaldato; uno che sia secondo i gusti dominanti; divenuto proprietà di tutta una borghesia bianca e consumista.
Un Cristo appena ornamentale. Non un segno di cercare oltre, un segno che almeno una chiesa creda che attendiamo ancora…


Eppure tu vieni, Gesù; tu non puoi non venire…Vieni sempre, Gesù. E vieni per conto tuo, vieni perché vuoi venire. E’ così la legge dell’amore. E vieni non solo là dove fiorisce ancora un’umanità silenziosa e desolata, dove ci sono ancora bimbi che nascono; dove non si ammazza e non si esclude nessuno, pur nel poco che uno possiede, e insieme si divide il pane.
Ma vieni anche fra noi, nelle nostre case così ingombre di cose inutili e così spiritualmente squallide.
Vieni anche nella casa del ricco, come sei entrato un giorno nella casa di Zaccheo, che pure era un corrotto della ricchezza. Vieni come vita nuova,  come il vino nuovo che fa esplodere i vecchi otri.


Convinto di queste cose e certo che tu comunque non ci abbandoni, così mi sono messo a cantare un giorno:
Vieni di notte,
ma nel nostro cuore è sempre notte:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni in silenzio,
noi non sappiamo più cosa dirci:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni in solitudine,
ma ognuno di noi è sempre più solo:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni , figlio della pace,
noi ignoriamo cosa sia la pace:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni a consolarci,
noi siamo sempre più tristi:
e dunque vieni sempre , Signore.
Vieni a cercarci,
noi siamo sempre più perduti:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni tu che ci ami:
nessuno è in comunione col fratello
se prima non è con te, Signore.
Noi siamo tutti lontani, smarriti,
né sappiamo chi siamo, cosa vogliamo.
Vieni, Signore.
Vieni sempre, Signore.
Padre David Maria Turoldo

domenica 23 dicembre 2012

Di che cosa parliamo quando parliamo di famiglia? La prospettiva sociologica



La famiglia non è né una proiezione degli individui né una struttura che esiste a loro discapito. L’approccio relazionale si lascia alle spalle il vecchio confronto fra chi pensa la famiglia come aggregato di individui (individualismo metodologico) e chi la pensa come una struttura a sé stante (collettivismo metodologico).
Le affermazioni à la Tarde (“Tolto l’individuale, il sociale non è nulla” – che nullifica la famiglia) o à la Durkheim (“Tolti gli individui resta la società” – che ipostatizza una struttura familiare) non ci fanno fare grandi passi in avanti. Quel confronto appartiene ormai a una stagione storicamente tramontata.
Molta parte della sociologia contemporanea non vede la famiglia perché non osserva la realtà sociale “per relazioni”, ma la osserva in base alla distinzione individuo/collettivo intesa come un’antitesi dialettica o come un’opposizione binaria, cioè in base a schematismi per i quali ogni cosa deve per forza cadere da una parte o dall’altra. E con ciò si chiude in un circolo ermeneutico da cui non c’è uscita: la famiglia diventa un incomprensibile intreccio di individuale e sistemico.
Solo oggi cominciamo a sviluppare una teoria sufficientemente adeguata a dar conto del tipo di realtà che è nel sociale familiare (ricorriamo all’espressione “realtà sui generis”, per dire che c’è qualcosa, invisibile, ma che esiste – e non è solo fantasia o inganno antropomorfico).
Occorre orientarsi verso un paradigma autenticamente relazionale: la relazione familiare è quella referenza – simbolica e intenzionale – che connette le persone in quanto genera e attualizza un legame tra loro come generanti (coppia) e generati (figli).
La relazione familiare consiste nell’influenza che i termini della relazione hanno l’uno sull’altro e nell’effetto di reciprocità che emerge tra essi.
“Stare (essere) in relazione familiare” può avere un significato statico o dinamico, può voler dire trovarsi in un contesto oppure in un’inter-azione.
E’ dunque opportuno distinguere fra relazione familiare come contesto (ovvero come matrice contestuale, ossia come situazione di riferimenti simbolici e connessioni strutturali osservate nel campo di indagine strutturale) e relazione familiare come interazione (ovvero come effetto emergente in/da una dinamica interattiva familiare).
Ma, in ogni caso, l’essere in relazione comporta il fatto che, agendo l’uno in riferimento all’altro, ego e alter non solo si orientano e si condizionano a vicenda, ma danno luogo a una connessione sui generis che in parte dipende da ego, in parte da alter, e in parte ancora è una realtà (effettuale e virtuale) che non dipende dai due, ma li “eccede”.

Parole di Pierpaolo Donati tratte da “Relazione familiare: la prospettica sociologica” in Studi interdisciplinari sulla famiglia n°21, Milano, Vita&Pensiero

giovedì 20 dicembre 2012

Matrimonio e famiglia di fatto: distinguere per promuovere l'umano


La cosiddetta famiglia di fatto è un’unione o convivenza libera analoga a quella che intrattengono un uomo e una donna sposati, con la differenza che essi non hanno contratto matrimonio. Si sottolinea che questa è la sola differenza che “fa differenza”.

Ma davvero la non esistenza di un matrimonio come atto legale pubblico secondo un ordinamento giuridico vigente è ciò che marca la sola differenza? Dal punto di vista sociologico non è così.

Mancando l’istituzione, mancano i presupposti sia di orientamento soggettivo, che sono essenziali per la maturazione dell’identità personale, sia di attendibilità oggettiva, che rende organizzata e giusta una società. Le aspettative di ciò che può essere comune ai membri di una famiglia di fatto (dai beni materiali alle relazioni affettive) diventano vaghe e incerte. L’unione libera è tale perché essa non risponde alle aspettative istituzionali (delle istituzioni della società, come quelle politiche, amministrative, fiscali, educative, ecc).

Il diritto dovrebbe poter distinguere le varie forme e trattarle diversamente. Ma ciò implica un sistema giuridico che non sia basato sull’indifferenza o neutralità etica.

Bisogna qui fare un rilievo della massima importanza. Il dibattito pubblico, e anche quello degli studiosi, è inficiato da un equivoco di fondo: la confusione tra distinzione e discriminazione (tra forme familiari).

Dire che il diritto deve essere capace di differenziare le forme di convivenza, significa che il diritto deve poter distinguere la diversa natura delle relazioni intime e primarie, se familiari in senso proprio, oppure per analogia, o solamente per metafora. Dire che il diritto non deve discriminarle significa evitare che forme uguali vengano trattate in modo diseguale.

Lo scopo della distinzione (la differenziazione di ciò che è famiglia e ciò che non lo è) non è quello di penalizzare i conviventi o di negare i diritti umani alla singola persona, ma è invece quello di promuovere le diverse qualità e potenzialità di umanizzazione contenuta nelle diverse forme di relazioni familiari.

Gran parte dei problemi che riguardano il riconoscimento della famiglia di fatto nascono dalla confusione fra distinzione e discriminazione delle forme familiari. Coloro che propongono una legislazione favorevole alle famiglie di fatto e alle unioni civili o affettive confondono la distinzione tra famiglia legale basata sul matrimonio e famiglia di fatto con la discriminazione di quest’ultima. Spesso osservano ogni distinzione (per esempio, unioni etero e omo-sessuali) come una discriminazione, al limite come negazione di fondamentali diritti umani degli individui, là dove invece è della qualità delle relazioni che si sta trattando. In tal modo, il riconoscimento delle famiglie di fatto, legittimata in base a un principio di uguaglianza nella dignità umana, si trasforma in un effetto perverso: l’indifferenziazione delle relazioni sociali proprie della famiglia, e quindi la perdita secca del proprium di queste relazioni. “Il fatto sociale” di “stare assieme” viene equiparato a “un diritto” (norma) cosicchè l’ordinamento giuridico perde la sua essenziale funzione di mediaare tra i fatti e le norme.

L’evidenza empirica dice che, quando lo Stato sociale pone a carico della collettività degli obblighi che derivano dalla mancanza di reciprocità piena a livello delle relazioni interpersonali di coppia, finisce per favorire l’individualismo anziché la solidarietà sociale, e quindi mina le proprie stesse basi di integrazione sociale.

Occorre riconoscere che, anche quando non lo vuole, il diritto non è mai un semplice strumento di gestione sociale che ha la funzione di controllare in modo neutrale le richieste dei cittadini. Il diritto ha sempre una funzione istitutiva della relazione sociale, in quanto contribuisce al riconoscimento e alla realizzazione di processi di differenziazione o indifferenziazione nei confronti di fondamentali qualità antropologiche delle relazioni sociali che caratterizzano una società.



Parole di Pierpaolo Donati (sociologo) tratte da “Relazione familiare: la prospettiva sociologica” in Studi interdisciplinari sulla famiglia n.21, 2006, Milano, Vita e Pensiero

mercoledì 19 dicembre 2012

La famiglia prima di tutto: lo psichismo mafioso


La ricerca ha individuato nella costruzione dello psichismo mafioso siciliano proprio la presenza  di una sottostante matrice familiare “satura”.

Inserire in un registro linguistico psicologico il termine “saturazione” è stato un utile espediente semantico per qualificare la matrice psichica del mafioso; è profondamente calzante perché l’organizzazione mafiosa opera un riempimento totale e massiccio del contenitore mentale dei suoi adepti, ai quali non lascia spiragli per il cambiamento, sbarrando ogni possibilità di trasformazione di stato. L’irrigidimento del pensiero, costretto in copioni già scritti, è tale da amputare la soggettività dell’individuo.

Il modello fondamentalista può essere accostato a Cosa Nostra in quanto essa è foriera di un pensiero totalizzato del suo “Noi-famiglia” d’appartenenza.

Nelle organizzazioni a carattere settale le individualità si sciolgono e si fondono in un unico grande corpo che procede all’unisono. Si genera in tal modo un sistema omogeneo e indifferenziato che sembra disgregare persino le funzioni psichiche dei singoli i quali, spesso allucinati da una sorta di incantamento ideologico, giungono a commettere gesti efferati e incomprensibili.

La presenza di una matrice familiare satura non permette all’individuo di pensarsi diverso dalla medesima causando una predominanza fantasmatica del passato che rende molto instabili i confini fra mondo interno e pensiero familiare.

Lo sfondamento della rete che costituisce la propria sicurezza è un’esperienza di quasi morte perché annienta per un istante l’identità, perché è un insulto ai vincoli che la costituiscono. Ma una volta attraversata questa esperienza catastrofica si può sentire di esistere davvero: accade un’estasi identitaria, una nuova nascita nell’ordine simbolico.

Questo è il gesto della ri-appropriazione di sé, di affrancamento dalla nascita biologica e che permette di diventare persona. Quando tale emancipazione esistenziale è sbarrata, solo rivolgendosi indietro si può sopravvivere. Così l’uomo perduta l’opportunità di esistere soggettivamente “ripara” nel grembo delle matrici familiari. Ed è esattamente quello che accade nella famiglia mafiosa.

La famiglia in questa prospettiva non è intesa semplicemente come un insieme di relazioni tra persone  e tra regole e ruoli, ma soprattutto come ambiente psicologico, come una matrice di pensiero: l’identità personale viene a definirsi affettivamente attraverso un processo complesso e inconscio di mentalizzazione e introiezione degli strumenti di pensiero dell’organizzazione antropologica di cui fa parte.

E’ nel comportamento quotidiano, nel vivere comunitario che l’individuo massimizza sempre i possibili vantaggi della propria famiglia: è soggetto all’esercitazione di una forza inconscia che preme dall’interno con lo scopo di soddisfare i bisogni dell’organizzazione famiglia. Senza la famiglia così concepita interiormente, il mafioso non sarebbe tale.

 

Parole di Serena Giunta e Emanuela Coppola (psicologhe cliniche) tratte da “Territori in controluce”, 2009, Milano, FrancoAngeli

martedì 18 dicembre 2012

Il dono e i legami - parte terza


Circolando, il dono arricchisce il legame e trasforma i protagonisti. Il dono contiene sempre un al di là, un supplemento, qualcosa in più che si cerca di definire con gratuità. E’ il valore di legame.

Il valore di legame è cosa diversa dal valore di scambio e dal valore d’uso. E’ forse quel che meglio spiega la diffidenza che manifesta il dono attraverso il denaro.

La posta in gioco del regalo è che il donatore dimostri che sa che cosa piace al donatario. Questo è più importante della soddisfazione “mercantile” del donatario, poiché è il legame che conta, e il dono è al servizio del legame.

Il valore di legame sfugge al calcolo, il che non significa che non esiste. Il valore di legame è il valore del tempo che il mercato sostituisce con una immediatezza infinitamente estensibile nello spazio, estraendo la cosa dalla rete temporale. Più si isolano le cose dal loro valore di legame, più esse diventano trasportabili, fredde (congelate…), puri oggetti sottratti al tempo. Esprimendo il valore di legame, il dono serve a dimostrarci che non siamo degli oggetti. Ritroviamo così il dono arcaico e lo hau del saggio maori, come lo interpreta Marcel Mauss. Lo hau è lo spirito della cosa che circola. Ora, che cos’è lo spirito della cosa se non quel che essa contiene della persona che ha dato, quel qualcosa che si distacca dal soggetto pur continuando ad appartenervi? E’ il valore di legame, ovvero lo scambio simbolico.

 

Parole di Jacques T. Godbout tratte da “Lo spirito del dono”, 1993, Torino, Bollati Boringhieri

Genitori-figli: educare o piacere?


I genitori devono sapere che, qualunque cosa facciano, agli occhi del bambino avranno sempre torto, anche se faranno del loro meglio. Prima o poi anche i genitori più affettuosi saranno responsabili di una sofferenza del bambino. Se, a quel punto il bambino dichiara: “Non ti voglio bene”, si risponda: “Non ha nessuna importanza, non sei nato per volermi bene”. Sei, sette anni, è già tardi per criticare i genitori. I genitori devono ascoltare con attenzione le critiche dei figli anche se ciò non deve, in molti casi, modificare il loro comportamento, perché devono educare i propri figli, non piacere loro. I bambini che crescendo continuano a voler sempre compiacere i genitori, che ritengono che i genitori abbiano sempre ragione e siano sempre giusti, sono bambini in cattiva salute. Più si può esprimere ostilità verso i genitori, mescolata o alternata con l’affetto, migliore è la salute morale di un bambino. Significa che il rapporto del bambino si è liberato dai legami incestuosi e di dipendenza totale. E’ così che ogni bambino comincia ad avere la propria autonomia.


Parole di Françoise Dolto tratte da “I problemi dei bambini” (1994) 1996, Milano, Mondadori

venerdì 14 dicembre 2012

Il dono e i legami - parte seconda

La generosità comporta la riconoscenza. Questa frase dice tutto. In generosità c’è generazione, c’è il fatto che qualcuno è incline a dare di più di quanto non sia tenuto a fare, che va dunque al di là delle regole stesse del dono. Questa generosità comporta la riconoscenza, una nuova nascita congiunta, un altro dono non previsto, e così di seguito senza fine.
Pensare in termini di dono è essenzialmente cessare di vedere quel che ci circonda (in primo luogo i legami, ma anche le cose) come strumenti e mezzi al nostro servizio.
Il dono è l’alternativa alla dialettica del signore e del servo. Non si tratta di dominare gli altri, né di essere dominato, né di domare la natura, né di esserne schiacciato; ma di appartenere a un insieme più vasto, di ristabilire il rapporto, di diventare membro.
L’uomo moderno si libera dei legami con le persone sostituendoli il più possibile con legami con le cose, dicendosi senza dubbio che è molto meno vincolante, così com’è più facile separarsi da un gatto o da un cane che non da un bambino. In tal modo egli accresce infinitamente il numero delle cose, con l’idea complementare di liberarsi anche delle costrizioni materiali, punto di partenza e obiettivo di tutta questa avventura: l’uomo liberato dalla costrizione storica della fame, del freddo, ecc grazie all’accumulazione delle cose. L’effetto perverso più spettacolare di questo processo è che l’accumulazione non soltanto non libera ma accresce la nostra dipendenza dalle cose, crea un’infinità di bisgoni, modifica addirittura la nostra capacità di resistenza fisica, ci rende invulnerabili e dipendenti dalle cose che abbiamo prodotto per liberarci di loro, per liberarci dai legami sociali.
L’uomo moderno falsamente emancipato dal dovere di reciprocità, schiacciato dal peso dell’accumulazione di quel che riceve senza ricambiare, diventa un grande infermo, e la sua sensibilità lo rende incapace di sopportare i rapporti umani.

Parole di Jacques T. Godbout (sociologo) tratte da "Lo spirito del dono", 1993, Torino, Bollati Boringhieri

sabato 8 dicembre 2012

Il dono e i legami - parte prima

Per pensare il dono è necessario collocarlo in un pensiero che non sia fondato sulla rottura. Rottura tra produttore e utente, rottura tra “loro” e “noi”, che ci riportano ineluttabilmente alla rottura tra l’uomo e il cosmo.
Dare la vita significa trascendere l’esperienza mercantile definita come il guadagno di una cosa mediante la perdita di un’altra. Chi dà la vita non soltanto non perde niente poiché si tratta di un dono-trasmissione, ma guadagna tutto. Guadagna il fatto di restituire la vita che gli è stata donata senza perderla e la possibilità di donare a qualcuno per tutta la sua vita qualcuno che non può essere un oggetto.
Dare la vita è anche accettare di morire perché bisogna che coloro che danno la vita muoiano perché quelli che nascono vivano, per far loro posto.
Proprio per questo è necessario che gli uomini partecipino a questa capacità di dare la vita che è stata in primo luogo attribuita alle donne. Proprio per questo il matrimonio fonda la società ed è il luogo di concentrazione dei regali e dei figli. La nascita è il dono per eccellenza, in tutte le società.
Il dono ci collega alla società e al mondo. Il dono reintegra l’umanità nel cosmo. E’ la teoria generale dello scambio, una teoria non limitata ai protagonisti del gioco mercantile. E’ il riconoscimento dell’universo altrimenti che come oggetto, il superamento dei diritti individuali.
Se noi continuiamo con la logica dei diritti, diventeremo sempre più attenti ai diritti di alcuni, e va benissimo; ma questa logica è anche, e simmetricamente, una logica di esclusione di tutti coloro che non hanno le caratteristiche necessarie per godere dei diritti e di pensare in termini di interesse generale. Sono così progressivamente esclusi non solo gli animali, ma anche i bambini, dopo il feto.
Il diritto del bambino dipende dalla definizione preliminare del bambino, sulla quale il bambino stesso non ha nulla da dire, non ha alcun diritto. Per il momento, i diritti cominciano dalla nascita.
La democrazia è consistita nell’estendere progressivamente la definizione di cittadino, cioè di coloro che sono dotati di ragione; ma questa estensione razionalistica ha dei limiti. A partire dal concepimento fino a quando diventa un cittadino, l’essere umano è considerato come un essere in formazione, non ancora a pieno titolo, non ancora libero, non ancora in possesso delle caratteristiche di una persona, dunque non ancora dotato del diritto di difendersi da solo. Allora i suoi diritti non possono essere altro che i doveri che gli altri – gli adulti – si accordano per rispettare nei suoi confronti.
A un certo punto il dono deve sostituirsi al diritto.
Dopo aver constatato che la modernità era fondata su una rottura fondamentale tra produttori e utenti che trasforma a termine ogni legame sociale in rapporto tra estranei retto dal mercato o dallo Stato, vediamo apparire una rottura ancora più fondamentale: una rottura con l’universo che separa l’essere umano dalla tradizione (dal passato) e dalla trascendenza. In altri termini, tutto quello che non è la somma degli individui ragionevoli utilitaristi esistenti a un momento dato è trasformato sia in oggetto (il resto del cosmo, a cominciare dagli animali) sia in illusione (i morti, gli antenati e coloro che ancora non esistono).
Il dono è ciò che compare e non era previsto né dal gesto né dalla legge, nemmeno quella del dono. E’ questo il paradosso della gratuità. Questa grazia che compare in più.


Parole di Jacques T. Godbout (sociologo) tratte da "Lo spirito del dono", 1993, Torino, Bollati Boringhieri

giovedì 6 dicembre 2012

Educare i figli equivale a proteggere?

Quello che si osserva oggi e che trova concordi gli studiosi e i ricercatori che studiano la famiglia, è che la famiglia latina è una famiglia estremamente diversa da quelle anglosassoni o del Nord Europa. Si è riconnotata per la sua nuclearità, una chiusura protettiva intorno ai suoi membri, un timore di danneggiarli, di non farli sentire uguali agli altri.
Pensiamo alle file di macchine davanti alle scuole all’ora dell’uscita: con i mezzi pubblici o a piedi, poverini, si bagnerebbero se piove, pranzerebbero tardi o potrebbero fare cattivi incontri. Si invita il lettore a riflettere su quanti genitori aiutano i figli a fare i compiti ogni giorno e a qualunque età, per evitare che facciano brutta figura e soffrano.
In questo modo cresceranno alimentando i se stessi l’idea che da soli, senza i genitori, non ce la faranno mai, insicuri di sé e delle proprie capacità.
Si pensi a quei genitori che sistemano qualunque problema dei figli: i vigili urbani sequestrano per alcuni mesi il libretto di circolazione del motorino perché il figlio guidava senza casco? Non ci sono problemi, o lo facciamo girare senza libretto o gli procuriamo un altro motorino da guidare, sempre senza casco, perché d’altronde se il casco non lo vuole mettere perché gli sciupa la pettinatura, mica lo possiamo ammazzare…
Se perde in continuazione in cellulare, o se se lo fa rubare per disattenzione, bisogna ogni volta ricomprarglielo: non può stare mica senza, ce l’hanno tutti!
Se fa un incidente e sfascia la macchina, e magari ha la sua buona parte di colpa, ci si limita a ringraziare il cielo perché non si è fatto nulla.
Se un insegnante si permette di sottolineare un comportamento o un abbigliamento inadeguato al contesto scolastico viene tacciato di indebita interferenza in una sfera che non lo riguarda.
Alcuni genitori poi si permettono di contestare ufficialmente valutazioni espresse in discipline specifiche e magari ottengono il risultato voluto perché minacciano ricorsi legali e ispezioni ministeriali… Potremmo andare avanti all’infinito.
Ecco che l’iperprotezione si allarga a macchia d’olio ad altri contesti perché pochi hanno la fermezza di opporsi e chi tenta di farlo viene usualmente isolato perché ritenuto pericoloso.
Ancora una volta è la migliore intenzione, ovvero quella di garantire ai figli una vita sempre migliore, che produce gli effetti peggiori: ossia, giovani adulti insicuri e incapaci di assumersi responsabilità in piena autonomia.


Parole di G. Nardone, E. Giannotti, R. Rocchi (psicologi) tratte da “Modelli di famiglia: conoscere e risolvere i problemi tra genitori e figli”, 2001, Milano, Ponte alle Grazie

mercoledì 5 dicembre 2012

Accudire: compito di uno o di molti?

Voglio sottolineare che, nonostante i nostri pareri contrari, occuparsi di neonati e di bambini non è un lavoro per una persona singola. Se il lavoro deve essere fatto bene e se si vuole che la persona che primariamente si occupa del bambino non sia troppo esausta, chi fornisce le cure deve a sua volta ricevere molta assistenza.
Varie persone potranno offrire questo aiuto: in genere è l’altro genitore; in molte società, compresa la nostra, l’aiuto proviene da una nonna. Altri che possono essere coinvolti nell’assistenza sono le ragazze adolescenti e le giovani donne. Nella maggior parte delle società di tutto il mondo questi fatti sono dati per scontati e la società si è organizzata di conseguenza.
Paradossalmente ci sono volute le società più ricche del mondo per ignorare questi fatti fondamentali.
Le forze dell’uomo e della donna impegnati nella produzione dei beni materiali contano come attivo in tutti i nostri indici economici. Le forze dell’uomo e della donna dedicati alla produzione, nella propria casa, di bambini felici e fiduciosi in se stessi, non contano affatto. Abbiamo creato un mondo a rovescio.

Parole di John Bowlby (psicologo) tratte da "Una base sicura", 1989, Milano, RaffaelloCortina Editore


Perchè anche andare dal terapeuta può diventare un atto che incide sulla costruzione di una società migliore?

Credo che il progressivo ridursi dell'influenza della società civile di contro alla schiacciante presenza del mercato e dello stato sia il fattore principale nell'espandersi dell'uso della psicoterapia alla fine del XX secolo. In altri termini, più famiglia e collettività si deteriorano, più aumenta il nostro lavoro come terapeuti.
Gli individui provano sempre più ciò che il sociologo Emile Durkheim cominciò a scoprire cent'anni fa: l'atomizzazione della società produce individui alienati, deprivati di chiare norme di comportamento. Le cartelle cliniche dei terapeuti sono piene di casi di individui che sono debolmente ancorati a famiglia e comunità e che trovano sempre meno significanza personale nel loro ruolo di consumatori e cittadini (i due ruoli principali offerti dal mercato e dallo stato). La psicoterapia è diventata il dottore dell’anima moderna sradicata.
Purtroppo, anziché deplorare questo cambiamento e invocare un rinnovamento della famiglie e della collettività, il campo della psicoterapia ha accettato – e talora indirettamente promosso – la premessa che l’erosione del potere della società civile sia necessaria per permettere all’individuo di aspirare ad autenticità individuale e vantaggio psicologico.
Noi in effetti aiutiamo i pazienti a instaurare “relazioni” migliori, ma con un’enfasi sulle connessioni volontarie, reciprocamente soddisfacenti nelle quali manca un senso di obbligo e di responsabilità per il reciproco benessere. Quando questo tipo di relazione diviene la norma, l’etica del mercato occupa l’ambito privato con la sua presa utilitaristica.
I nuovi studi sui contesti sociali e politici della psicoterapia si occupano quasi esclusivamente di aiutare i pazienti a plasmare la propria vita a dispetto di forze sociali negative. L’attivismo sociale prende l’aspetto della rivendicazione dei propri legittimi diritti nella collettività.
In breve, è un dato acquisito che le collettività sono responsabili del benessere degli individui. Ma che dire delle responsabilità degli individui verso la promozione del benessere della propria collettività, per renderla più sicura, più umana, più bella, più giusta?
Non vi è alcuna contraddizione fondamentale tra perseguire i propri bisogni privati e promuovere il benessere della collettività. Pertanto quando promuoviamo l’impegno attivo dei pazienti nella collettività promuoviamo allo stesso tempo il loro benessere personale. Non sto proponendo una nuova prescrizione di attivismo sociale quanto una nuova descrizione della rete continua che connette il bene privato a quello pubblico.

Parole di William J. Doherty (terapeuta sistemico) tratte da “Scrutare nell’anima”, 1997, Milano, RaffaelloCortina Editore

domenica 2 dicembre 2012

Perchè i legami che scegliamo (di coppia e sociale) hanno bisogno di promesse?

L'impossibilità per l'uomo di fare affidamento su se stesso o di avere completa fede in sè (che è la stessa cosa) è il prezzo che gli umani pagano per la libertà; e l'impossibilità di rimanere unico padrone di ciò che fa, di conoscere le conseguenze dei nostri atti, e di contare sul futuro è il prezzo che l'uomo paga per la pluralità e la realtà, per la gioia di abitare insieme con gli altri un mondo in cui la realtà è garantita per ciascuno dalla presenza di tutti.
C'è un potere che si genera quando le persone si riuniscono e "agiscono di concerto", e che si dissolve quando si separano. La forza che le tiene unite è la forza della mutua promessa.
La sovranità di un corpo di persone legato e tenuto unito non da una identica volontà che in qualche magico modo tutti li ispira, ma da uno scopo convenuto per il quale soltanto le promesse sono valide e vincolanti, si rivela chiaramente nella sua indiscussa superiorità sopra coloro che sono completamente liberi, non legati da promesse nè tenuti da scopo alcuno. Questa superiorità deriva dalla facoltà di disporre del futuro come se fosse presente, cioè dall'enorme e miracoloso allargamento della dimensione in cui il potere può essere effettivo.

Parole di Hannah Arendt tratte da "Vita activa", 2011, Milano, Bompiani

sabato 1 dicembre 2012

Perchè le fiabe sono state messe al bando?

Perchè tanti genitori intelligenti, dai buoni intendimenti, preoccupatissimi del felice sviluppo dei loro figli, tengono in poco conto il valore delle fiabe e privano i loro bambini di quanto queste storie hanno da offrire?
Secondo certuni le fiabe non presentano quadri "veritieri" della vita, e quindi non sono sane. Essi non pensano che la verità di un bambino può essere diversa da quella degli adulti. Non si rendono conto che le fiabe non cercano di descrivere il mondo esterno e la "realtà".
Certi genitori temono, raccontando ai loro figli gli eventi fantastici contenuti nelle fiabe, di dir loro delle "bugie".
Ma la "verità" delle fiabe è la verità della nostra immaginazione, non quella dei normali rapporti di causa-effetto. Prima che un bambino possa venir alle prese con la realtà, deve disporre di una base di princìpi per poterla giudicare.
Certi genitori temono che i loro figli possano lasciarsi trascinare dalle loro fantasie, che, esposti alle fiabe, finiscano per credere nella magia. Ma ogni bambino crede nella magia, e cessa di farlo quando diventa grande (a eccezione di coloro che sono stati troppo delusi dalla realtà per essere in grado di riporre fiducia nelle sue ricompense).
Altri genitori temono che la mente di un bambino possa fare una tale indigestione di fantasie fiabesche da trascurare d'imparare come si affronta la realtà. Ma è vero il contrario: per quanto una persona sia complessa - piena di conflitti, ambivalenze, contraddizioni - la personalità umana è indivisibile. Quale che possa essere un'esperienza, coinvolge sempre contemporaneamente tutti gli aspetti della personalità. E la personalità totale, per essere capace di affrontare la vita, deve poter essere sostenuta da una ricca fantasia combinata con una ferma coscienza e una chiara comprensione della realtà. Questa ricca e variegata vita fantastica è fornita al bambino dalle fiabe, che possono impedire alla sua immaginazione di rimanere bloccata entro gli angusti confini di poche fantasticherie ansiose o appagatrici di desideri che gravitano intorno a poche limitate preoccupazioni.
I pensieri del bambino piccolo non si susseguono con ordine, a differenza di quelli dell'adulto: le fantasticherie del bambino sono i suoi stessi pensieri. Quando un bambino cerca di comprendere se stesso e gli altri, o di calcolare quale possono essere le conseguenze di particolari azioni, intesse delle fantasie su questi problemi. E' il suo modo particolare di "giocare con le idee". Offrire a un bambino il pensiero razionale come il suo principale strumento per distinguere i propri sentimenti e per comprendere il mondo avrebbe l'unico effetto di confonderlo e di limitarlo.


Parole di Bruno Bettelheim tratte da "Il mondo incantato", (1975) - 2000, Milano, Feltrinelli

mercoledì 28 novembre 2012

La relazione madre-figlia: tra "materno" e "femminile"

Nella relazione madre-figlia, come nelle storie d'amore, l'enigma irresolubile che si fatica a riconoscere, è la compresenza del "materno" (irriducibile a ogni comprensione razionale) e del "femminile" (altrettanto potente, irriducibile e inconscio).
Fno a quando si sta ancorate ai ruoli c'è la possibilità del vuoto, del non sapere nulla nel permanere dell'indifferenza schiacciante, ma si rischia di venire stritolate quando ci si stacca, appena ci si muove oltre le maschere, oltre le forme rassicuranti non solo dei ruoli sociali, ma di quanto siamo convinte di avere definitivamente acquisito come maturità e saggezza piana; è allora che ci si ritrova come sempre attirate nell'una o nell'altra direzione, invischiate, a rischio di cadere in una trappola.
Parlare del "materno" vuol dire entrare nel territorio misterioso della relazione con le origini sul piano storico personale e archetipico, lì dove nasce il  senso del nostro stare al mondo, e insieme il senso del nostro andare, tra nomadismo e appartenenza.
Parlare della madre significa dire dell'andare e dello stare, quindi lontano e dentro la terra, dire dell'inquietudine di una relazione in cui convivono speranza e delusione, tenerezza della memoria e dolore dell'assenza. Comunque sia andata e comunque vada il rapporto reale.
Parlare del "femminile" vuol dire entrare in un terreno altrettanto duro, che con la madre e dalla madre nasce, ma poi se ne stacca, si allontana, se ne va per conto suo [...].
Lo stampo primario delle relazioni affettive, delle storie d'amore, ma anche del nostro modo di aprirci o meno al mondo, sta dentro la madre, nell'impronta che da lei ci viene e che noi come madri a nostra volta ci troviamo a trasmettere.
Ma quando la madre avrà ultimato il compito dell'accoglimento e dell'accudimento, avrà svolto la parte simbiotica, consentendo il luogo, il tempo e lo spazio della reverie, nelle storie di vita [...] quale sarà il passo da compiere, quale il movimento del lasciare andare e dell'andarsene? Non sorà questo il senso della richiesta della volpe al piccolo principe: "Addomesticami"?



Parole di Lella Ravasi Bellocchio tratte da "Di madre in figlia", 1987, Milano, RaffaelloCortina Editore

martedì 27 novembre 2012

"Il colore del grano" e i legami

"Che cosa vuol dire addomesticare?" "E' una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami [...]. Tu, fino a ora, per me non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E tu neppure hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo [...]. La mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane, e il grano per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano." [...] Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l'ora della partenza fu vicina: "Ah!", disse la volpe, "piangerò". "La colpa è tua", disse il piccolo principe, "io non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi." "E' vero", disse la volpe. "Ma piangerai!", disse il piccolo principe. "E' certo", disse la volpe. "Ma allora che ci guadagni?" "Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano."
Nella storia del piccolo principe ci incantiamo alle parole della volpe e, mentre scopriamo come si diventa umani, qualcosa ci racconta dell'essenza del legame d'amore.
E' una storia, una fiaba per grandi e bambini, che abbiamo tutti letto e tutti raccontano, una storia che sta sulle magliette quella di Saint-Exupéry. Ma ancora mi interroga sul divenire della soggettività nella reciprocità.[...] Mi racconta della vita illuminata, della musica che fa uscire dalla tana, del colore del grano come memoria, dell'eternità del sentimento d'amore quando tutto sembra finito.
La volpe e il piccolo principe sanno il principio e la fine del legame: una metafora del materno, quel materno della volpe che sa il distacco e la perdita e l'inevitabilità del dolore, ma non può che passare di lì perché lì si gioca il suo destino, il destino della sua individuazione, così come il destino del piccolo principe, della sua individuazione, passa dall'andarsene. Semplicemente.


Parole di Lella Ravasi Bellocchio, analista junghiana, tratte da "Di madre in figlia", 1987, Milano, RaffaelloCortina Editore


Origine, terra e responsabilità

Il legame tra le stirpi e la terra in cui esse si insediano è un aspetto importante della relazione generazionale: ciò è più evidente incontrando le famiglie di migranti. D'altra parte, il continuo e parossistico movimento tipico della società postmoderna - specie americana - trasforma ma non annulla il rapporto tra famiglia e terra di origine. Ogni coppia genitoriale deve potersi riconoscere in una "terra di origine" che sia vivibile e che accolga i ricordi, siano essi piacevoli o dolorosi.
Alcuni studiosi di relazioni familiari qualificano esplicitamente l'ambiente come storia culturale da considerare insieme alla storia familiare e alle influenze genetiche e che ha un forte impatto sulla vita familiare. Possiamo pensare agli effetti lungo le generazioni delle tragiche vicende del popolo ebraico o di quello armeno e, in tempi più recenti, ai tragici conflitti etnici sia nell'ex-Iugoslavia, sia in Palestina, sia in Africa, ma anche al fenomeno in appparenza meno drammatico ma più diffuso dell'immigrazione. In ogni caso non c'è gruppo etnico che non conosca vicissitudini dolorose e che non abbia ricercato e non ricerchi vie di rigenerenazione.
La dimensione generativa tiene vivo il legame tra le generazioni, comprese quelle passate, e si esprime nella cura responsabile di quelle più giovani. Da un punto di vista psicologico la generatività è mossa da un profondo desiderio di immortalità genetica e "nutrimento comunitario": mentre da un punto di vista sociale essa è una risorsa che può incoraggiare l'impegno dei cittadini al bene comune e motivare sforzi che mantengano continuità e diano inizio al cambiamento sociale.
Cruciale è così l'investimento delle generazioni adulte nel trasmettere il loro patrimonio valoriale alle generazioni giovani. Potremmo allora dire cheper un trasferimento positivo sul sociale della responsabilità generazionale occorre averne fatta la prova in famiglia, cioè nelle relazioni intime che sono anche le più rischiose.

Parole di Eugenia Scabini e Vittorio Cigoli tratte da "Alla ricerca del famigliare", 2012, Milano, RaffaelloCortina Editore

domenica 25 novembre 2012

Città, legami e futuro

E che dire del rapporto che esiste fra la città e la persona umana?
Non è forse vero che la città è il domicilio organico della persona?
Non è forse vero che la persona umana si radica nella città, come l'albero nel suolo?
Essa si radica negli elementi essenziali della città: e cioè, nel tempio, nella casa, nella officina, nella scuola, nell'ospedale.
Non solo: proprio per questa relazione vitale e permanente fra la città e l'uomo, la città è lo strumento appropriato per superare tutte le possibili crisi cui la storia e la civiltà vanno sottoposte.
La crisi del tempo nostro può essere definita come sradicamento della persona dal contesto organico della città.
Tutto ciò l'ho detto per porre la questione fondamentale. E la questione è: quale è il diritto che le generazioni presenti possiedono sulle città da esse ricevute dalle generazioni passate?
La risposta non può essere che questa: è un diritto di usare, migliorandolo e non distruggendolo o dilapidandolo, un patrimonio visibile ed invisibile, reale e ideale, ad esse consegnato dalle generazioni passate e destinato a essere trasmesso - accresciuto e migliorato - alle generazioni future.
Le città non sono cose neutre di cui si possa disporre a nostro piacimento: sono cose altrui, delle generazioni venture: delle quali nessuno può violare il diritto e l'attesa.

Parole di Giorgio La Pira tratte da "Le città sono vive", 1957, Brescia, Editrice La Scuola

sabato 24 novembre 2012

Piccola "gemma" sull'ascolto

Riprendiamo da Martha Nussbaum alcune riflessioni per accompagnare la visione.
Le abbiamo estrapolate da un libro (non tradotto in italiano) Love's Knowledge: Essays on Phylosophy and Literature, 1990, Oxford University Press, New York.
Il giochino da fare e' aggiungere o sostituire alle parole "medici" le parole "psicologi", "professionisti delle relazioni d'aiuto" e a "giudizio etico" la parola "ascolto".

"Finche' noi addestriamo le persone a pensare che il giudizio etico consiste nell'applicazione delle regole precedentemente formulate (finche' noi, parimenti addestriamo i medici a pensare che tutto cio' di cui hanno bisogno e' contenuto nei libri di testo) noi diamo loro una preparazione poco adatta al reale svolgersi della vita e li priviamo delle risorse e iniziative necessarie per affrontare ogni sorpresa. Noi viviamo in mezzo a complessita' sconcertanti. Una lucidità responsabile può essere strappata con la forza da quella selva oscura solo con sforzi dolorosi e vigilanti, e l' analisi attenta dei singoli dettagli. Il nostro compito più alto e faticoso e' quello di fare di noi stessi "persone su cui nulla e' perduto"(Henry James)".

Buona visione! ( dura solo 10')

Dec 27, 2007 - Uploaded by bezzibe
Cortometraggio di Paolo Genovese e Luca Minierò
www.youtube.com/watch?v=tOMHEAmirlY

mercoledì 21 novembre 2012

L'importanza dell'errore - seconda parte


Quale può essere stato uno dei tanti possibili terreni infantili su cui si è alimentata la pianta del perfezionismo destinata a ritorcersi contro di noi? Paradossalmente è stato spesso il suo contrario, cioè il sentirsi inadeguati, incapaci di fare le cose, senza alcuna consapevolezza delle nostre stesse risorse e con una fiducia scarsissima in noi.
E' soltanto il sentirsi profondamente svalutato e privo di valore che porta poi a cercare il valore in un'immagine ideale eccezionale, possibilmente perfetta. Ed ecco allora che questa immagine esterna così forte, potente, invulnerabile, invincibile, viene interiorizzata e diventa la guida e il motore che ci conduce, rischiando di travolgere noi e chi ci sta vicino. Perchè è un'immagine falsa, priva di vita, morta, in quanto nega proprio fra le altre cose anche l'importanza dell'errore, che è l'esperienza fondamentale della vita nell'imparare.
Dovremmo proprio ricordarcene quando ci troviamo davanti ai tentativi e agli errori non solo dei bambini, ma anche di noi adulti. Noi siamo sempre gli stessi e mai gli stessi, non fosse altro che  per la nostra semplice età che scorre inesorabilmente senza chiedercene il permesso: ecco perchè è importante che si coltivi la capacità di imparare sin da piccoli.
E pazienza se i compiti sono sbagliati o se le ricerche non sono perfette: la loro correzione e' un problema della scuola, non dei genitori. L'oppressione sugli errori non e' necessariamente autoritaria, può anche essere semplicemente lo stare sempre accanto a un bambino per volerlo aiutare a fare sempre meglio. Il risultato a volte per lui può essere che interiorizzi il concetto che esiste sempre un meglio (e questa può anche sembrare una buona spinta per lui), ma anche che questo meglio e' quasi sempre fuori di lui, nelle mani di un altro: genitore, insegnante e così via. 
E per scoprire che il "suo" meglio (che certamente esiste, anche se non e' detto che debba essere necessariamente il meglio di tutti) deve salire la scala che comprende anche i tentativi e gli errori, ecco che per paura di sbagliare ci rinuncia in partenza e si blocca, rinunciando pero' anche a scoprire le sue stesse risorse distribuite lungo quella scala.


Parole di Alba Marcoli tratte da "Il bambino perduto e ritrovato", 1999, Milano, Mondadori

martedì 20 novembre 2012

Tatuaggi e legami


Nella società postmoderna, l'attrazione erotica non comporta l'obbligo di formare coppie stabili. Se due persone si sposano, il mercato dei divorzi può offrire, a seconda dei paesi, vie d'uscita più o meno agevoli. Ma i più giovani sono coscienti di questa instabilità, e in genere più ragionevoli delle generazioni precedenti. Così, rinviano il matrimonio a un'età più avanzata. Curiosamente, però, molti di quelli che formano coppie non ufficiali compiono un altro passo: si fanno tatuare, spesso in zone intime, il nome dell'amante. E' come se una parte di loro, inconscia e arcaica, volesse apppropriarsi per sempre tanto dell'altro persona quanto degli antichi vincoli di indissolubilità.
E' interessante infatti notare come, man mano che i costumi autorizzavano i rapporti di coppia a farsi meno permanenti, i regali di coppia riguardanti il corpo abbiano preso la direzione opposta. Un tempo ci si regalava il golf o la sciarpa, che si limitano a coprirlo, e si mettono e si tolgono in un attimo. Oggi, il piercing o il tatuaggio, che ne divengono parte stabile.
L'altro è lontano e il bisogno inconsapevole di lui penetra, letteralmente, sotto la pelle. Non si dona dunque un anello (persino quello matrimoniale si può sfilare), nè si aggiunge il nome dell'altro ai documenti (che si possono riscrivere) ma al corpo, che è sempre lo stesso.
Come conseguenza dell'ondata di rimorsi, sono state elaborate nuove tecniche laser che riescono a cancellare i tatuaggi. L'ondata che porta alla cancellazione è fortissima, inarrestabile, e altrettanto irrazionale quanto quella che aveva portato a farsi tatuare. Tra l'altro diversi specialisti mettono in guardia contro il potenziale cancerogeno dei pigmenti che, cancellando, entrano nel sistema linfatico. Cancellare il tatuaggio è voler restare all'oscuro, invertendo il decorso del tempo per respingere un "prossimo" così vicino che sopravvive sotto l'epidermide e negando un problema che continuerà a esistere senza il nostro permesso.

Parole di Luigi Zoja - psicoanalista - tratte da "La morte del prossimo", 2009, Torino, Einaudi

L'importanza dell'errore - prima parte

Si rifugge dall'errore come da qualcosa che possa mandare all'aria la nostra stessa autostima: ben fragile, se non si può permettere di includere l'errore nelle esperienze di vita. A volte si rinuncia a tentare le esperienze per paura di sbagliare. Ci sono bambini o ragazzi che piuttosto di correre il rischio di sbagliare si bloccano davanti alle prove e rinunciano in partenza a sperimentare e a educare le risorse che anche loro hanno, a tanti livelli diversi, come ognuno di noi.
Persino molti ritardi o abbandoni a livello universitario possono avere alle spalle, fra i tanti possibili, anche questo problema. Eppure, quando queste cose succedono, in genere non piovono dal cielo e difficilmente avvengono per caso. Sono preparate nella quotidianità del giorno dopo giorno nell'ambiente in cui un bambino cresce: c'è chi ne risente di meno, c'è chi ne risente tanto da condizionarne tutta la vita.
Cercare di evitare a un bambino gli errori sarebbe come impedirgli di imparare a vivere.
Tutto quello che noi abbiamo imparato è stato acquisito per tentativi ed errori.
Se l'errore è lo scalino fondamentale e necessario da cui inizia una scala altrettanto importante, perchè noi adulti ne abbiamo spesso così paura? Perchè chiediamo ai bambini o ai ragazzi di saltare il primo scalino, quello più alto e fondamentale, e di iniziare a salire dal secondo, anche quando le loro gambe non sono abbastanza lunghe per farlo? Può essere che quando chiediamo queste cose in realtà, fra le tante possibili situazioni, a volte riproduciamo anche qualcosa che facciamo spesso noi adulti nei nostri stessi confronti, in quanto non ci permettiamo o non ci perdoniamo gli errori e siamo sempre alla ricerca della perfezione? E che qualche volta sull'altare di questo perfezionismo nell'organizzazione della nostra vita quotidiana sacrifichiamo invece cose ben più importanti anche se meno visibili, come il tempo e la qualità delle relazioni, dell'ascolto, del silenzio e della riflessione, la curiosità e l'interesse per tutto ciò che è diverso da noi e può allargare i nostri orizzonti e il nostro modo di vedere le cose, ecc.? Quando nella scelta delle nostre strategie di vita includiamo quindi anche quella del perfezionismo e del volere che tutta la realtà esterna corrisponda il più possibile a una nostra immagine interna e alle sue esigenze, ecco che inevitabilmente arriviamo su un terreno minato che prima o poi danneggerà noi e i bambini che ci sono vicini. E tuttavia è anche vero che se siamo arrivati a questa scelta abbiamo avuto i nostri validi motivi, non l'abbiamo di certo fatto nè per capriccio nè per partito preso, ma ci siamo stati condotti da circostanze di vita.

Il bisogno di avere tutto sotto controllo (figli compresi)

Se il controllo della situazione ci è utile e importante per la vita, il suo eccesso, come ogni eccesso, finisce spesso per rovinarcerla. E soprattutto finisce per ingabbiare il bisogno di sperimentazione di un bambino che cresce, nuocendogli nello sviluppo.
Il bisogno di controllo però non scaturisce mai dal nulla, ma da ansie profonde, spesso tramandate da una generazione all'altra, che cerchiamo di tenere a bada controllando la situazione, bambini compresi, in un modo che risulta tanto più esasperato quanto più alto è il livello dell'ansia.
Se risaliamo pazientemente il fiume della nostra storia può essere che riusciamo a scoprire o a tenere presenti con maggior consapevolezza quali ansie antiche e profonde riguardanti avvenimenti della nostra vita o di quella dei nostri nonni o genitori ci hanno a poco a poco portati a un bisogno di controllo che è diventato così esasperato perchè, fra i tanti fattori che interenvengono, è un po' come se fossero rimasti dei conti in sospeso, in alcuni casi, con situazioni di vita dolorose (come morti, malattie, abbandoni, ecc.) che sono state subite in un passato più o meno lontano senza alcuna possibilità di controllo.

Parole di Alba Marcoli tratte da "Il bambino perduto e ritrovato", 1999, Milano, Mondadori

domenica 18 novembre 2012

Perché è importante parlare di legami?

"Lavorare per l'autonomia delle persone": questo potrebbe essere il motto dell'attuale ideologia dominante nell'ambito del lavoro terapeutico e medico-sociale. Cercare di "aiutare le persone a diventare autonome": nessuno vi trova niente da ridire, anzi. In una società in cui i legami sono vissuti come costrizioni o come contratti, l'essere autonomi è percepito come una qualità sociale altamente desiderabile.
Questa idea dell'autonomia, che a tutta prima appare indiscutibile, pone tuttavia qualche problema. In primo luogo ci obbliga a una riflessione sul tema del legame (legame sociale, legame familiare), che costituisce una tappa necessaria per la formulazione dell'approccio terapeutico alternativo che chiamiamo clinica del legame.
Non e' inutile, a questo scopo, un breve richiamo ad Aristotele. Aristotele infatti, contraddicendo il senso comune, spiega che lo schiavo è colui che non ha legami, che non ha un suo posto, che si può utilizzare dappertutto e in diversi modi. L'uomo libero invece è colui che ha molti legami e molti obblighi verso gli altri, verso la città e verso il luogo in cui vive.
Paradossalmente, quindi, la nostra società e' riuscita a foggiare un ideale di libertà che assomiglia, come una goccia d'acqua, alla vita dello schiavo così come la definisce Aristotele. San Paolo si riferisce alla libertà dicendo: sono incatenato alla mia libertà. Per questi saggi la libertà non si costruisce attraverso una specie di autonomia o di isolamento individuale, ma attraverso lo sviluppo di legami: sono questi che ci rendono liberi.

Parole di Miguel Benasayag e Gerard Schmit (psicoanalisti) tratte da "L'epoca delle passioni tristi", 2004, Milano, Feltrinelli 

Adolescenza dei figli: che succede ai genitori?

Nella vita dei genitori il periodo equivalente all'adolescenza del figlio ha caratteristiche particolari: di solito corrisponde alla mezza età. Essi rivivono così attraverso il figlio l'età in cui tutto era possibile, mentre per loro si apre l'epoca dei primi bilanci, in cui si prende atto che molti sogni sono rimasti irrealizzati e alcune opportunità precluse. Questo può generare dei normali e naturali sentimenti di invidia, che però risultano particolarmente dolorosi e incoffessabili anche a loro stessi: possono incosciamente assumere atteggiamenti di competizione sul piano della femminilità o virilità, oppure possono mostrare l'aspetto depresso che blocca la vitalità del figlio. Come dice Gustavo Petropolli Charmet: "la madre si ammala, il padre è molto stanco".
Anche i nuovi interessi e autonomie dei figli fanno confrontare i genitori con esperienze inedite: la casa si svuota della compagnia dei ragazzi e la coppia si ritrova faccia a faccia, e soprattutto le madri restano disoccupate rispetto al grande impegno dedicato in passato alla cura dei bambini. Allora, come quei neopensionati che, dopo aver sognato per anni il tempo libero, si accorgono che può essere un tempo "vuoto", anche i genitori devono a volte reiventarsi interessi e relazioni sociali: non negare il disagio, ma condividerlo con altri può aiutare a ripartire per una nuova fase della vita personale e di coppia.

Parole di Cristina Colombo e Francesca Corneli tratte da "E le mamme chi le aiuta?" di Alba Marcoli, 2009, Milano, Mondadori

Preadolescenti: le prime richieste di autonomia e stili genitoriali

"Il supporto all'autonomia è una delle componeneti cruciali della genitorialità. Sono i genitori che possono spronare, sostenere o limitare l'acquisizione di una funzionamento autonomo. Spronare, sostenere o limitare sono azioni simultaneamente presenti in ogni genitore e si alternano a seconda della fascia di età, del temperamento del ragazzo e della situazione. C'è però uno stile prevalente che contraddistinge ogni genitore.
  • Il genitore "sei ancora piccolo" ossia il limitatore di autonomia
I genitori che pensano che il loro figlio sia sempre "ancora/troppo piccolo" per intraprendere qualunque attività senza di loro o per pensare in modo autonomo. In generale questi genitori rimangono straniti dalle richieste dei figli e le imputano a influenze esterne ("Lo ha visto fare da qualcun altro!", "A scuola sente dire certe cose!"). Quando i bambini sono piccoli, le piccole azioni che indicano autonomia sono acolte con gioia e soddisfazione dal genitore che osservando il propiro figlio, comprende che adesso il piccolo è in grado di fare delle cose nuove, ha acquisito nuove comptenze.
Alle elementari le richieste di autonomia sorprendono e molto spesso colgono impreparati. Alla fine delle elementari e con l'ingresso nella scuola media, durante il passaggio alla preadolescenza, le richieste di autonomia spaventano perchè mettono i genitori di fronte al fatto che i ragazzi sono grandi, ma non hanno ancora tutti gli strumenti adeguati per muoversi nel modno adulto e quasi improvvisamente ci si accorge dei rischi che si possono incontrare nel mondo esterno.
Il genitore che giudica suo figlio sempre "troppo piccolo" non gli riconosce le capacità e non gli consente di mettersi alla prova in nuove esperienze. In questo modo i preadolescenti faticano ad acquisire la consapevolezza di ciò che sono in grado di fare e di ciò che non sono in grado di fare. E' un genitore che non svolge l'importante funzione di rispecchiamento del sè, funzione che consente al figlio di conoscersi meglio.
  • Il genitore "ormai sei grande" ossia lo spronatore di autonomia
I genitori che promuovono molto l'indipendenza dei propri figli prevengono qualsiasi richiesta di autonomia e indipendenza e non riescono a creare lo spazio relazionale nel quale il bambino e poi il ragazzo possano maturare un bisogno e uan successiva richiesta di autonomia. Gli "spronatori" precedono le richieste e i bosogni perchè sono convinti di conoscere talmente bene il proprio figlio da sapere che cosa è necessario per la sua autonomia. Sono genitori che pungolano il bambino o il ragazzo affinchè si metta alla prova con nuove esperienze, si prenda spazi di autonomia in nome di un "essere grandi" che a volte il figlio non percepisce affatto.
Sono genitori che promuovono lo sviluppo del figlio in base a degli ideali che, tuttavia, non tengono conto delle sue richieste e dei suoi desideri. Saltare il passaggio in cui sono i figli a richiedere autonomia porta i ragazzi a non acquisire la consapevolezza necessaria delle proprie capacità e dei propri limiti. In questo caso è comunque il genitore che pensa sempre a tutto e che, pur offrendo al proprio figlio la possibilità di vivere situazioni di autonomia o indipendenza, lo rende, in realtà, dipendente totalmente da sè.
  • Il genitore "dipende" ossia il supporter di autonomia
I genitori "dipende" sono i genitori che bilanciano "sei ancora piccolo" e "ormai sei grande". Sono i genitori che valutano l'eventuale richeista di autonomia del figlio capendo che cosa effettivamente stanno chiedendo i ragazzi. Essi valutano sia le capacità dei propri figli sia come loro possano mantenere il controllo della situazione. Sono i genitori che si mostrano in grado di stupirsi per le richieste e sono, però, disposti a rivedere il rapporto con loro. I supporter dell'autonomia sostengono i figli concedendo spazi di indipendenza per permettere loro di mettersi alla prova, offrendo la disponibiltà a rivedere insieme alcune richieste, fornendo inoltre dei limiti alla sperimentazione."

Parole tratte da "Mi fido di te..." di Margherita Lanz (professore associato di Psicologia presso l'Università Cattolica di Milano), 2012, Milano, Edizioni San Paolo

venerdì 16 novembre 2012

Perchè è così frequente oggi tra i genitori la difficoltà a tollerare gli errori dei propri figli che crescono?

"Credo che a entrare in gioco in questo fenomeno così generalizzato siano molti e svariati elementi. Uno di quelli più rilevanti mi sembra possano essere le aspettative esagerate che spesso oggi accompagnano i bambini, ritorcendosi inevitabilmente contro di loro e i loro genitori. Forse c'è in gioco un dato storico; nelle famiglie numerose di una volta ogni figlio aveva le sue particolari caratteristiche personali: uno era bello, uno simpatico, uno bravo a scuola, un altro nello sport e così via. Oggi in un figlio che è spesso unico, tutte queste aspettative corrono il rischio di essere inconsapevolmente concentrate: quell'unico bambino deve essere bello, buono, bravo a scuola, nello sport e così via. Non è facile crescere con tante aspettative addosso, soprattutto quando si vive in una società che già di per sè punta all'immagine e all'eccezionalità, al modello del "vincente".

Ma per un "vincente" (il quale peraltro avrà sicuramente anche lui le sue difficoltà, seppure diverse) in un gruppo di cento bambini ce ne sono almeno noventanove che avranno una vita normale, non "eccezionale": e di loro che ne facciamo? Dei disadattati? [...]

D'altra parte, è proprio l'aspettativa di "eccezionalità" a innescare nel bambino una tale ansia da prestazione che corre il rischio di produrre il fallimento: invece di un candidato al premio Nobel ne farà spesso un ragazzo che abbandonerà gli studi, invece di un campione di calcio si rintroverà un imbranato e così via. Il tutto come reazione più o meno inconscia, ma naturale e in parte sana, a un'ansia così profonda da condurre in genere al risultato opposto.

Questo non vuol dire che i bambini non debbano essere accompagnati da aspettative, è normale e sano che ciò avvenga. Solo che le aspettative sane su un bambino non sono di eccezionalità, bensì di normalità, come ben insegnano i genitori di bambini disabili, i quali devono purtroppo tante volte affrontare il dolore di dover rinunciare anche a queste.

E' del tutto naturale e sano, infatti, che un neonato cresca, che impari a parlare e a camminare con i suoi modi e i suoi tempi, a stare con gli altri e a giocare, a leggere e a scrivere quando andrà a scuola e così via. Che possa avere cioè un normale futuro di studio, di lavoro, di relazioni familiari.

"Un bambino cresce cadendo e rialzandosi" dice un saggio proverbio turco."


Parole di Alba Marcoli tratte da "Il bambino lasciato solo", 2007, Milano, Mondadori

Alba Marcoli è una psicologa clinica, di formazione analitica, che ha avuto una lunga esperienza nel campo dell'insegnamento e della psicoterapia.