Benvenuti

"Dobbiamo inventare una nuova saggezza per una nuova era. E nel frattempo, se vogliamo fare qualcosa di buono, dobbiamo apparire eterodossi, problematici, pericolosi e disubbidienti a coloro che ci hanno preceduto".
JOHN MAYNARD KEYNES Essays in persuasion

"Non aver paura che la vita possa finire. Abbi invece paura che non possa cominciare mai davvero".
JOHN HENRY NEWMAN

mercoledì 28 novembre 2012

La relazione madre-figlia: tra "materno" e "femminile"

Nella relazione madre-figlia, come nelle storie d'amore, l'enigma irresolubile che si fatica a riconoscere, è la compresenza del "materno" (irriducibile a ogni comprensione razionale) e del "femminile" (altrettanto potente, irriducibile e inconscio).
Fno a quando si sta ancorate ai ruoli c'è la possibilità del vuoto, del non sapere nulla nel permanere dell'indifferenza schiacciante, ma si rischia di venire stritolate quando ci si stacca, appena ci si muove oltre le maschere, oltre le forme rassicuranti non solo dei ruoli sociali, ma di quanto siamo convinte di avere definitivamente acquisito come maturità e saggezza piana; è allora che ci si ritrova come sempre attirate nell'una o nell'altra direzione, invischiate, a rischio di cadere in una trappola.
Parlare del "materno" vuol dire entrare nel territorio misterioso della relazione con le origini sul piano storico personale e archetipico, lì dove nasce il  senso del nostro stare al mondo, e insieme il senso del nostro andare, tra nomadismo e appartenenza.
Parlare della madre significa dire dell'andare e dello stare, quindi lontano e dentro la terra, dire dell'inquietudine di una relazione in cui convivono speranza e delusione, tenerezza della memoria e dolore dell'assenza. Comunque sia andata e comunque vada il rapporto reale.
Parlare del "femminile" vuol dire entrare in un terreno altrettanto duro, che con la madre e dalla madre nasce, ma poi se ne stacca, si allontana, se ne va per conto suo [...].
Lo stampo primario delle relazioni affettive, delle storie d'amore, ma anche del nostro modo di aprirci o meno al mondo, sta dentro la madre, nell'impronta che da lei ci viene e che noi come madri a nostra volta ci troviamo a trasmettere.
Ma quando la madre avrà ultimato il compito dell'accoglimento e dell'accudimento, avrà svolto la parte simbiotica, consentendo il luogo, il tempo e lo spazio della reverie, nelle storie di vita [...] quale sarà il passo da compiere, quale il movimento del lasciare andare e dell'andarsene? Non sorà questo il senso della richiesta della volpe al piccolo principe: "Addomesticami"?



Parole di Lella Ravasi Bellocchio tratte da "Di madre in figlia", 1987, Milano, RaffaelloCortina Editore

martedì 27 novembre 2012

"Il colore del grano" e i legami

"Che cosa vuol dire addomesticare?" "E' una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami [...]. Tu, fino a ora, per me non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E tu neppure hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l'uno dell'altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo [...]. La mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane, e il grano per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell'oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano." [...] Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l'ora della partenza fu vicina: "Ah!", disse la volpe, "piangerò". "La colpa è tua", disse il piccolo principe, "io non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi." "E' vero", disse la volpe. "Ma piangerai!", disse il piccolo principe. "E' certo", disse la volpe. "Ma allora che ci guadagni?" "Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano."
Nella storia del piccolo principe ci incantiamo alle parole della volpe e, mentre scopriamo come si diventa umani, qualcosa ci racconta dell'essenza del legame d'amore.
E' una storia, una fiaba per grandi e bambini, che abbiamo tutti letto e tutti raccontano, una storia che sta sulle magliette quella di Saint-Exupéry. Ma ancora mi interroga sul divenire della soggettività nella reciprocità.[...] Mi racconta della vita illuminata, della musica che fa uscire dalla tana, del colore del grano come memoria, dell'eternità del sentimento d'amore quando tutto sembra finito.
La volpe e il piccolo principe sanno il principio e la fine del legame: una metafora del materno, quel materno della volpe che sa il distacco e la perdita e l'inevitabilità del dolore, ma non può che passare di lì perché lì si gioca il suo destino, il destino della sua individuazione, così come il destino del piccolo principe, della sua individuazione, passa dall'andarsene. Semplicemente.


Parole di Lella Ravasi Bellocchio, analista junghiana, tratte da "Di madre in figlia", 1987, Milano, RaffaelloCortina Editore


Origine, terra e responsabilità

Il legame tra le stirpi e la terra in cui esse si insediano è un aspetto importante della relazione generazionale: ciò è più evidente incontrando le famiglie di migranti. D'altra parte, il continuo e parossistico movimento tipico della società postmoderna - specie americana - trasforma ma non annulla il rapporto tra famiglia e terra di origine. Ogni coppia genitoriale deve potersi riconoscere in una "terra di origine" che sia vivibile e che accolga i ricordi, siano essi piacevoli o dolorosi.
Alcuni studiosi di relazioni familiari qualificano esplicitamente l'ambiente come storia culturale da considerare insieme alla storia familiare e alle influenze genetiche e che ha un forte impatto sulla vita familiare. Possiamo pensare agli effetti lungo le generazioni delle tragiche vicende del popolo ebraico o di quello armeno e, in tempi più recenti, ai tragici conflitti etnici sia nell'ex-Iugoslavia, sia in Palestina, sia in Africa, ma anche al fenomeno in appparenza meno drammatico ma più diffuso dell'immigrazione. In ogni caso non c'è gruppo etnico che non conosca vicissitudini dolorose e che non abbia ricercato e non ricerchi vie di rigenerenazione.
La dimensione generativa tiene vivo il legame tra le generazioni, comprese quelle passate, e si esprime nella cura responsabile di quelle più giovani. Da un punto di vista psicologico la generatività è mossa da un profondo desiderio di immortalità genetica e "nutrimento comunitario": mentre da un punto di vista sociale essa è una risorsa che può incoraggiare l'impegno dei cittadini al bene comune e motivare sforzi che mantengano continuità e diano inizio al cambiamento sociale.
Cruciale è così l'investimento delle generazioni adulte nel trasmettere il loro patrimonio valoriale alle generazioni giovani. Potremmo allora dire cheper un trasferimento positivo sul sociale della responsabilità generazionale occorre averne fatta la prova in famiglia, cioè nelle relazioni intime che sono anche le più rischiose.

Parole di Eugenia Scabini e Vittorio Cigoli tratte da "Alla ricerca del famigliare", 2012, Milano, RaffaelloCortina Editore

domenica 25 novembre 2012

Città, legami e futuro

E che dire del rapporto che esiste fra la città e la persona umana?
Non è forse vero che la città è il domicilio organico della persona?
Non è forse vero che la persona umana si radica nella città, come l'albero nel suolo?
Essa si radica negli elementi essenziali della città: e cioè, nel tempio, nella casa, nella officina, nella scuola, nell'ospedale.
Non solo: proprio per questa relazione vitale e permanente fra la città e l'uomo, la città è lo strumento appropriato per superare tutte le possibili crisi cui la storia e la civiltà vanno sottoposte.
La crisi del tempo nostro può essere definita come sradicamento della persona dal contesto organico della città.
Tutto ciò l'ho detto per porre la questione fondamentale. E la questione è: quale è il diritto che le generazioni presenti possiedono sulle città da esse ricevute dalle generazioni passate?
La risposta non può essere che questa: è un diritto di usare, migliorandolo e non distruggendolo o dilapidandolo, un patrimonio visibile ed invisibile, reale e ideale, ad esse consegnato dalle generazioni passate e destinato a essere trasmesso - accresciuto e migliorato - alle generazioni future.
Le città non sono cose neutre di cui si possa disporre a nostro piacimento: sono cose altrui, delle generazioni venture: delle quali nessuno può violare il diritto e l'attesa.

Parole di Giorgio La Pira tratte da "Le città sono vive", 1957, Brescia, Editrice La Scuola

sabato 24 novembre 2012

Piccola "gemma" sull'ascolto

Riprendiamo da Martha Nussbaum alcune riflessioni per accompagnare la visione.
Le abbiamo estrapolate da un libro (non tradotto in italiano) Love's Knowledge: Essays on Phylosophy and Literature, 1990, Oxford University Press, New York.
Il giochino da fare e' aggiungere o sostituire alle parole "medici" le parole "psicologi", "professionisti delle relazioni d'aiuto" e a "giudizio etico" la parola "ascolto".

"Finche' noi addestriamo le persone a pensare che il giudizio etico consiste nell'applicazione delle regole precedentemente formulate (finche' noi, parimenti addestriamo i medici a pensare che tutto cio' di cui hanno bisogno e' contenuto nei libri di testo) noi diamo loro una preparazione poco adatta al reale svolgersi della vita e li priviamo delle risorse e iniziative necessarie per affrontare ogni sorpresa. Noi viviamo in mezzo a complessita' sconcertanti. Una lucidità responsabile può essere strappata con la forza da quella selva oscura solo con sforzi dolorosi e vigilanti, e l' analisi attenta dei singoli dettagli. Il nostro compito più alto e faticoso e' quello di fare di noi stessi "persone su cui nulla e' perduto"(Henry James)".

Buona visione! ( dura solo 10')

Dec 27, 2007 - Uploaded by bezzibe
Cortometraggio di Paolo Genovese e Luca Minierò
www.youtube.com/watch?v=tOMHEAmirlY

mercoledì 21 novembre 2012

L'importanza dell'errore - seconda parte


Quale può essere stato uno dei tanti possibili terreni infantili su cui si è alimentata la pianta del perfezionismo destinata a ritorcersi contro di noi? Paradossalmente è stato spesso il suo contrario, cioè il sentirsi inadeguati, incapaci di fare le cose, senza alcuna consapevolezza delle nostre stesse risorse e con una fiducia scarsissima in noi.
E' soltanto il sentirsi profondamente svalutato e privo di valore che porta poi a cercare il valore in un'immagine ideale eccezionale, possibilmente perfetta. Ed ecco allora che questa immagine esterna così forte, potente, invulnerabile, invincibile, viene interiorizzata e diventa la guida e il motore che ci conduce, rischiando di travolgere noi e chi ci sta vicino. Perchè è un'immagine falsa, priva di vita, morta, in quanto nega proprio fra le altre cose anche l'importanza dell'errore, che è l'esperienza fondamentale della vita nell'imparare.
Dovremmo proprio ricordarcene quando ci troviamo davanti ai tentativi e agli errori non solo dei bambini, ma anche di noi adulti. Noi siamo sempre gli stessi e mai gli stessi, non fosse altro che  per la nostra semplice età che scorre inesorabilmente senza chiedercene il permesso: ecco perchè è importante che si coltivi la capacità di imparare sin da piccoli.
E pazienza se i compiti sono sbagliati o se le ricerche non sono perfette: la loro correzione e' un problema della scuola, non dei genitori. L'oppressione sugli errori non e' necessariamente autoritaria, può anche essere semplicemente lo stare sempre accanto a un bambino per volerlo aiutare a fare sempre meglio. Il risultato a volte per lui può essere che interiorizzi il concetto che esiste sempre un meglio (e questa può anche sembrare una buona spinta per lui), ma anche che questo meglio e' quasi sempre fuori di lui, nelle mani di un altro: genitore, insegnante e così via. 
E per scoprire che il "suo" meglio (che certamente esiste, anche se non e' detto che debba essere necessariamente il meglio di tutti) deve salire la scala che comprende anche i tentativi e gli errori, ecco che per paura di sbagliare ci rinuncia in partenza e si blocca, rinunciando pero' anche a scoprire le sue stesse risorse distribuite lungo quella scala.


Parole di Alba Marcoli tratte da "Il bambino perduto e ritrovato", 1999, Milano, Mondadori

martedì 20 novembre 2012

Tatuaggi e legami


Nella società postmoderna, l'attrazione erotica non comporta l'obbligo di formare coppie stabili. Se due persone si sposano, il mercato dei divorzi può offrire, a seconda dei paesi, vie d'uscita più o meno agevoli. Ma i più giovani sono coscienti di questa instabilità, e in genere più ragionevoli delle generazioni precedenti. Così, rinviano il matrimonio a un'età più avanzata. Curiosamente, però, molti di quelli che formano coppie non ufficiali compiono un altro passo: si fanno tatuare, spesso in zone intime, il nome dell'amante. E' come se una parte di loro, inconscia e arcaica, volesse apppropriarsi per sempre tanto dell'altro persona quanto degli antichi vincoli di indissolubilità.
E' interessante infatti notare come, man mano che i costumi autorizzavano i rapporti di coppia a farsi meno permanenti, i regali di coppia riguardanti il corpo abbiano preso la direzione opposta. Un tempo ci si regalava il golf o la sciarpa, che si limitano a coprirlo, e si mettono e si tolgono in un attimo. Oggi, il piercing o il tatuaggio, che ne divengono parte stabile.
L'altro è lontano e il bisogno inconsapevole di lui penetra, letteralmente, sotto la pelle. Non si dona dunque un anello (persino quello matrimoniale si può sfilare), nè si aggiunge il nome dell'altro ai documenti (che si possono riscrivere) ma al corpo, che è sempre lo stesso.
Come conseguenza dell'ondata di rimorsi, sono state elaborate nuove tecniche laser che riescono a cancellare i tatuaggi. L'ondata che porta alla cancellazione è fortissima, inarrestabile, e altrettanto irrazionale quanto quella che aveva portato a farsi tatuare. Tra l'altro diversi specialisti mettono in guardia contro il potenziale cancerogeno dei pigmenti che, cancellando, entrano nel sistema linfatico. Cancellare il tatuaggio è voler restare all'oscuro, invertendo il decorso del tempo per respingere un "prossimo" così vicino che sopravvive sotto l'epidermide e negando un problema che continuerà a esistere senza il nostro permesso.

Parole di Luigi Zoja - psicoanalista - tratte da "La morte del prossimo", 2009, Torino, Einaudi

L'importanza dell'errore - prima parte

Si rifugge dall'errore come da qualcosa che possa mandare all'aria la nostra stessa autostima: ben fragile, se non si può permettere di includere l'errore nelle esperienze di vita. A volte si rinuncia a tentare le esperienze per paura di sbagliare. Ci sono bambini o ragazzi che piuttosto di correre il rischio di sbagliare si bloccano davanti alle prove e rinunciano in partenza a sperimentare e a educare le risorse che anche loro hanno, a tanti livelli diversi, come ognuno di noi.
Persino molti ritardi o abbandoni a livello universitario possono avere alle spalle, fra i tanti possibili, anche questo problema. Eppure, quando queste cose succedono, in genere non piovono dal cielo e difficilmente avvengono per caso. Sono preparate nella quotidianità del giorno dopo giorno nell'ambiente in cui un bambino cresce: c'è chi ne risente di meno, c'è chi ne risente tanto da condizionarne tutta la vita.
Cercare di evitare a un bambino gli errori sarebbe come impedirgli di imparare a vivere.
Tutto quello che noi abbiamo imparato è stato acquisito per tentativi ed errori.
Se l'errore è lo scalino fondamentale e necessario da cui inizia una scala altrettanto importante, perchè noi adulti ne abbiamo spesso così paura? Perchè chiediamo ai bambini o ai ragazzi di saltare il primo scalino, quello più alto e fondamentale, e di iniziare a salire dal secondo, anche quando le loro gambe non sono abbastanza lunghe per farlo? Può essere che quando chiediamo queste cose in realtà, fra le tante possibili situazioni, a volte riproduciamo anche qualcosa che facciamo spesso noi adulti nei nostri stessi confronti, in quanto non ci permettiamo o non ci perdoniamo gli errori e siamo sempre alla ricerca della perfezione? E che qualche volta sull'altare di questo perfezionismo nell'organizzazione della nostra vita quotidiana sacrifichiamo invece cose ben più importanti anche se meno visibili, come il tempo e la qualità delle relazioni, dell'ascolto, del silenzio e della riflessione, la curiosità e l'interesse per tutto ciò che è diverso da noi e può allargare i nostri orizzonti e il nostro modo di vedere le cose, ecc.? Quando nella scelta delle nostre strategie di vita includiamo quindi anche quella del perfezionismo e del volere che tutta la realtà esterna corrisponda il più possibile a una nostra immagine interna e alle sue esigenze, ecco che inevitabilmente arriviamo su un terreno minato che prima o poi danneggerà noi e i bambini che ci sono vicini. E tuttavia è anche vero che se siamo arrivati a questa scelta abbiamo avuto i nostri validi motivi, non l'abbiamo di certo fatto nè per capriccio nè per partito preso, ma ci siamo stati condotti da circostanze di vita.

Il bisogno di avere tutto sotto controllo (figli compresi)

Se il controllo della situazione ci è utile e importante per la vita, il suo eccesso, come ogni eccesso, finisce spesso per rovinarcerla. E soprattutto finisce per ingabbiare il bisogno di sperimentazione di un bambino che cresce, nuocendogli nello sviluppo.
Il bisogno di controllo però non scaturisce mai dal nulla, ma da ansie profonde, spesso tramandate da una generazione all'altra, che cerchiamo di tenere a bada controllando la situazione, bambini compresi, in un modo che risulta tanto più esasperato quanto più alto è il livello dell'ansia.
Se risaliamo pazientemente il fiume della nostra storia può essere che riusciamo a scoprire o a tenere presenti con maggior consapevolezza quali ansie antiche e profonde riguardanti avvenimenti della nostra vita o di quella dei nostri nonni o genitori ci hanno a poco a poco portati a un bisogno di controllo che è diventato così esasperato perchè, fra i tanti fattori che interenvengono, è un po' come se fossero rimasti dei conti in sospeso, in alcuni casi, con situazioni di vita dolorose (come morti, malattie, abbandoni, ecc.) che sono state subite in un passato più o meno lontano senza alcuna possibilità di controllo.

Parole di Alba Marcoli tratte da "Il bambino perduto e ritrovato", 1999, Milano, Mondadori

domenica 18 novembre 2012

Perché è importante parlare di legami?

"Lavorare per l'autonomia delle persone": questo potrebbe essere il motto dell'attuale ideologia dominante nell'ambito del lavoro terapeutico e medico-sociale. Cercare di "aiutare le persone a diventare autonome": nessuno vi trova niente da ridire, anzi. In una società in cui i legami sono vissuti come costrizioni o come contratti, l'essere autonomi è percepito come una qualità sociale altamente desiderabile.
Questa idea dell'autonomia, che a tutta prima appare indiscutibile, pone tuttavia qualche problema. In primo luogo ci obbliga a una riflessione sul tema del legame (legame sociale, legame familiare), che costituisce una tappa necessaria per la formulazione dell'approccio terapeutico alternativo che chiamiamo clinica del legame.
Non e' inutile, a questo scopo, un breve richiamo ad Aristotele. Aristotele infatti, contraddicendo il senso comune, spiega che lo schiavo è colui che non ha legami, che non ha un suo posto, che si può utilizzare dappertutto e in diversi modi. L'uomo libero invece è colui che ha molti legami e molti obblighi verso gli altri, verso la città e verso il luogo in cui vive.
Paradossalmente, quindi, la nostra società e' riuscita a foggiare un ideale di libertà che assomiglia, come una goccia d'acqua, alla vita dello schiavo così come la definisce Aristotele. San Paolo si riferisce alla libertà dicendo: sono incatenato alla mia libertà. Per questi saggi la libertà non si costruisce attraverso una specie di autonomia o di isolamento individuale, ma attraverso lo sviluppo di legami: sono questi che ci rendono liberi.

Parole di Miguel Benasayag e Gerard Schmit (psicoanalisti) tratte da "L'epoca delle passioni tristi", 2004, Milano, Feltrinelli 

Adolescenza dei figli: che succede ai genitori?

Nella vita dei genitori il periodo equivalente all'adolescenza del figlio ha caratteristiche particolari: di solito corrisponde alla mezza età. Essi rivivono così attraverso il figlio l'età in cui tutto era possibile, mentre per loro si apre l'epoca dei primi bilanci, in cui si prende atto che molti sogni sono rimasti irrealizzati e alcune opportunità precluse. Questo può generare dei normali e naturali sentimenti di invidia, che però risultano particolarmente dolorosi e incoffessabili anche a loro stessi: possono incosciamente assumere atteggiamenti di competizione sul piano della femminilità o virilità, oppure possono mostrare l'aspetto depresso che blocca la vitalità del figlio. Come dice Gustavo Petropolli Charmet: "la madre si ammala, il padre è molto stanco".
Anche i nuovi interessi e autonomie dei figli fanno confrontare i genitori con esperienze inedite: la casa si svuota della compagnia dei ragazzi e la coppia si ritrova faccia a faccia, e soprattutto le madri restano disoccupate rispetto al grande impegno dedicato in passato alla cura dei bambini. Allora, come quei neopensionati che, dopo aver sognato per anni il tempo libero, si accorgono che può essere un tempo "vuoto", anche i genitori devono a volte reiventarsi interessi e relazioni sociali: non negare il disagio, ma condividerlo con altri può aiutare a ripartire per una nuova fase della vita personale e di coppia.

Parole di Cristina Colombo e Francesca Corneli tratte da "E le mamme chi le aiuta?" di Alba Marcoli, 2009, Milano, Mondadori

Preadolescenti: le prime richieste di autonomia e stili genitoriali

"Il supporto all'autonomia è una delle componeneti cruciali della genitorialità. Sono i genitori che possono spronare, sostenere o limitare l'acquisizione di una funzionamento autonomo. Spronare, sostenere o limitare sono azioni simultaneamente presenti in ogni genitore e si alternano a seconda della fascia di età, del temperamento del ragazzo e della situazione. C'è però uno stile prevalente che contraddistinge ogni genitore.
  • Il genitore "sei ancora piccolo" ossia il limitatore di autonomia
I genitori che pensano che il loro figlio sia sempre "ancora/troppo piccolo" per intraprendere qualunque attività senza di loro o per pensare in modo autonomo. In generale questi genitori rimangono straniti dalle richieste dei figli e le imputano a influenze esterne ("Lo ha visto fare da qualcun altro!", "A scuola sente dire certe cose!"). Quando i bambini sono piccoli, le piccole azioni che indicano autonomia sono acolte con gioia e soddisfazione dal genitore che osservando il propiro figlio, comprende che adesso il piccolo è in grado di fare delle cose nuove, ha acquisito nuove comptenze.
Alle elementari le richieste di autonomia sorprendono e molto spesso colgono impreparati. Alla fine delle elementari e con l'ingresso nella scuola media, durante il passaggio alla preadolescenza, le richieste di autonomia spaventano perchè mettono i genitori di fronte al fatto che i ragazzi sono grandi, ma non hanno ancora tutti gli strumenti adeguati per muoversi nel modno adulto e quasi improvvisamente ci si accorge dei rischi che si possono incontrare nel mondo esterno.
Il genitore che giudica suo figlio sempre "troppo piccolo" non gli riconosce le capacità e non gli consente di mettersi alla prova in nuove esperienze. In questo modo i preadolescenti faticano ad acquisire la consapevolezza di ciò che sono in grado di fare e di ciò che non sono in grado di fare. E' un genitore che non svolge l'importante funzione di rispecchiamento del sè, funzione che consente al figlio di conoscersi meglio.
  • Il genitore "ormai sei grande" ossia lo spronatore di autonomia
I genitori che promuovono molto l'indipendenza dei propri figli prevengono qualsiasi richiesta di autonomia e indipendenza e non riescono a creare lo spazio relazionale nel quale il bambino e poi il ragazzo possano maturare un bisogno e uan successiva richiesta di autonomia. Gli "spronatori" precedono le richieste e i bosogni perchè sono convinti di conoscere talmente bene il proprio figlio da sapere che cosa è necessario per la sua autonomia. Sono genitori che pungolano il bambino o il ragazzo affinchè si metta alla prova con nuove esperienze, si prenda spazi di autonomia in nome di un "essere grandi" che a volte il figlio non percepisce affatto.
Sono genitori che promuovono lo sviluppo del figlio in base a degli ideali che, tuttavia, non tengono conto delle sue richieste e dei suoi desideri. Saltare il passaggio in cui sono i figli a richiedere autonomia porta i ragazzi a non acquisire la consapevolezza necessaria delle proprie capacità e dei propri limiti. In questo caso è comunque il genitore che pensa sempre a tutto e che, pur offrendo al proprio figlio la possibilità di vivere situazioni di autonomia o indipendenza, lo rende, in realtà, dipendente totalmente da sè.
  • Il genitore "dipende" ossia il supporter di autonomia
I genitori "dipende" sono i genitori che bilanciano "sei ancora piccolo" e "ormai sei grande". Sono i genitori che valutano l'eventuale richeista di autonomia del figlio capendo che cosa effettivamente stanno chiedendo i ragazzi. Essi valutano sia le capacità dei propri figli sia come loro possano mantenere il controllo della situazione. Sono i genitori che si mostrano in grado di stupirsi per le richieste e sono, però, disposti a rivedere il rapporto con loro. I supporter dell'autonomia sostengono i figli concedendo spazi di indipendenza per permettere loro di mettersi alla prova, offrendo la disponibiltà a rivedere insieme alcune richieste, fornendo inoltre dei limiti alla sperimentazione."

Parole tratte da "Mi fido di te..." di Margherita Lanz (professore associato di Psicologia presso l'Università Cattolica di Milano), 2012, Milano, Edizioni San Paolo

venerdì 16 novembre 2012

Perchè è così frequente oggi tra i genitori la difficoltà a tollerare gli errori dei propri figli che crescono?

"Credo che a entrare in gioco in questo fenomeno così generalizzato siano molti e svariati elementi. Uno di quelli più rilevanti mi sembra possano essere le aspettative esagerate che spesso oggi accompagnano i bambini, ritorcendosi inevitabilmente contro di loro e i loro genitori. Forse c'è in gioco un dato storico; nelle famiglie numerose di una volta ogni figlio aveva le sue particolari caratteristiche personali: uno era bello, uno simpatico, uno bravo a scuola, un altro nello sport e così via. Oggi in un figlio che è spesso unico, tutte queste aspettative corrono il rischio di essere inconsapevolmente concentrate: quell'unico bambino deve essere bello, buono, bravo a scuola, nello sport e così via. Non è facile crescere con tante aspettative addosso, soprattutto quando si vive in una società che già di per sè punta all'immagine e all'eccezionalità, al modello del "vincente".

Ma per un "vincente" (il quale peraltro avrà sicuramente anche lui le sue difficoltà, seppure diverse) in un gruppo di cento bambini ce ne sono almeno noventanove che avranno una vita normale, non "eccezionale": e di loro che ne facciamo? Dei disadattati? [...]

D'altra parte, è proprio l'aspettativa di "eccezionalità" a innescare nel bambino una tale ansia da prestazione che corre il rischio di produrre il fallimento: invece di un candidato al premio Nobel ne farà spesso un ragazzo che abbandonerà gli studi, invece di un campione di calcio si rintroverà un imbranato e così via. Il tutto come reazione più o meno inconscia, ma naturale e in parte sana, a un'ansia così profonda da condurre in genere al risultato opposto.

Questo non vuol dire che i bambini non debbano essere accompagnati da aspettative, è normale e sano che ciò avvenga. Solo che le aspettative sane su un bambino non sono di eccezionalità, bensì di normalità, come ben insegnano i genitori di bambini disabili, i quali devono purtroppo tante volte affrontare il dolore di dover rinunciare anche a queste.

E' del tutto naturale e sano, infatti, che un neonato cresca, che impari a parlare e a camminare con i suoi modi e i suoi tempi, a stare con gli altri e a giocare, a leggere e a scrivere quando andrà a scuola e così via. Che possa avere cioè un normale futuro di studio, di lavoro, di relazioni familiari.

"Un bambino cresce cadendo e rialzandosi" dice un saggio proverbio turco."


Parole di Alba Marcoli tratte da "Il bambino lasciato solo", 2007, Milano, Mondadori

Alba Marcoli è una psicologa clinica, di formazione analitica, che ha avuto una lunga esperienza nel campo dell'insegnamento e della psicoterapia.