La cosiddetta famiglia di fatto è
un’unione o convivenza libera analoga a quella che intrattengono un uomo e una
donna sposati, con la differenza che essi non hanno contratto matrimonio. Si
sottolinea che questa è la sola differenza che “fa differenza”.
Ma davvero la non esistenza di un
matrimonio come atto legale pubblico secondo un ordinamento giuridico vigente è
ciò che marca la sola differenza? Dal punto di vista sociologico non è così.
Mancando l’istituzione, mancano i
presupposti sia di orientamento soggettivo, che sono essenziali per la
maturazione dell’identità personale, sia di attendibilità oggettiva, che rende
organizzata e giusta una società. Le aspettative di ciò che può essere comune
ai membri di una famiglia di fatto (dai beni materiali alle relazioni
affettive) diventano vaghe e incerte. L’unione libera è tale perché essa non
risponde alle aspettative istituzionali (delle istituzioni della società, come
quelle politiche, amministrative, fiscali, educative, ecc).
Il diritto dovrebbe poter distinguere
le varie forme e trattarle diversamente. Ma ciò implica un sistema giuridico
che non sia basato sull’indifferenza o neutralità etica.
Bisogna qui fare un rilievo della
massima importanza. Il dibattito pubblico, e anche quello degli studiosi, è
inficiato da un equivoco di fondo: la confusione tra distinzione e
discriminazione (tra forme familiari).
Dire che il diritto deve essere
capace di differenziare le forme di convivenza, significa che il diritto deve
poter distinguere la diversa natura delle relazioni intime e primarie, se
familiari in senso proprio, oppure per analogia, o solamente per metafora. Dire
che il diritto non deve discriminarle significa evitare che forme uguali
vengano trattate in modo diseguale.
Lo scopo della distinzione (la
differenziazione di ciò che è famiglia e ciò che non lo è) non è quello di
penalizzare i conviventi o di negare i diritti umani alla singola persona, ma è
invece quello di promuovere le diverse qualità e potenzialità di umanizzazione
contenuta nelle diverse forme di relazioni familiari.
Gran parte dei problemi che
riguardano il riconoscimento della famiglia di fatto nascono dalla confusione
fra distinzione e discriminazione delle forme familiari. Coloro che propongono
una legislazione favorevole alle famiglie di fatto e alle unioni civili o
affettive confondono la distinzione tra famiglia legale basata sul matrimonio e
famiglia di fatto con la discriminazione di quest’ultima. Spesso osservano ogni distinzione (per esempio, unioni
etero e omo-sessuali) come una discriminazione,
al limite come negazione di fondamentali diritti umani degli individui, là dove
invece è della qualità delle relazioni che si sta trattando. In tal modo, il
riconoscimento delle famiglie di fatto, legittimata in base a un principio di
uguaglianza nella dignità umana, si trasforma in un effetto perverso:
l’indifferenziazione delle relazioni sociali proprie della famiglia, e quindi
la perdita secca del proprium di queste relazioni. “Il fatto sociale” di “stare
assieme” viene equiparato a “un diritto” (norma) cosicchè l’ordinamento
giuridico perde la sua essenziale funzione di mediaare tra i fatti e le norme.
L’evidenza empirica dice che,
quando lo Stato sociale pone a carico della collettività degli obblighi che
derivano dalla mancanza di reciprocità piena a livello delle relazioni
interpersonali di coppia, finisce per favorire l’individualismo anziché la
solidarietà sociale, e quindi mina le proprie stesse basi di integrazione
sociale.
Occorre riconoscere che, anche
quando non lo vuole, il diritto non è mai un semplice strumento di gestione
sociale che ha la funzione di controllare in modo neutrale le richieste dei
cittadini. Il diritto ha sempre una funzione istitutiva della relazione
sociale, in quanto contribuisce al riconoscimento e alla realizzazione di
processi di differenziazione o indifferenziazione nei confronti di fondamentali
qualità antropologiche delle relazioni sociali che caratterizzano una società.
Parole di Pierpaolo Donati (sociologo) tratte
da “Relazione familiare: la prospettiva sociologica” in Studi interdisciplinari sulla famiglia n.21, 2006, Milano, Vita e
Pensiero